È tempo di una vertenza generale su prezzi e carovita: lo sciopero generale dell’11 ottobre sarà il primo passo
Come se non bastasse il 20% di aumento di luce e gas avvenuto in gran silenzio a inizio estate, Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica (leggi “dell’economia di mercato legata all’ambiente”), annuncia candidamente un ulteriore impennata delle bollette della corrente elettrica addirittura del 40% cosa che produrrà un aumento della spesa annua per le famiglie di oltre 300 euro, anche se alcuni istituti di ricerca parlano di ben 500 euro.
Alla base di tutto sarebbero la scarsità di gas e di materie prime e la necessità di rifondere alle aziende quanto speso per pagare le quote legate all’emissione di CO2, aumenti in buona parte frutto anche della guerra economica in corso fatta di sanzioni, embarghi, ritorsioni. Una contingenza che consente a chi dovrebbe essere dedito alla salvaguardia dell’ambiente, il ministro Cingolani appunto, di affermare candidamente che non è da escludere un ritorno all’energia nucleare, che definisce “pulita”.
Quale che sia il motivo tecnico dell’aumento della bolletta energetica, l’unica cosa certa è che il rimbalzo economico sulle famiglie dei lavoratori sarà questa volta molto pesante e, per una larga fetta, determinante nella loro capacità di spesa.
I più anziani fra noi ricorderanno che fino al 1992 esisteva la “scala mobile”, un meccanismo di indicizzazione dei salari, degli stipendi e delle pensioni che automaticamente scattava trimestralmente per adeguare le buste paga al crescere dei prezzi dei beni al consumo, contenuti in un apposito paniere di beni e servizi, che venivano monitorati per decidere la corrispondente percentuale di aumento dei salari.
In realtà la scala mobile non riusciva ad annullare completamente gli effetti dell’inflazione su salari, stipendi e pensioni ma era comunque un meccanismo che almeno in parte ne attutiva il peso sulle economie familiari.
Nel paniere era ovviamente previsto anche di calcolare gli effetti del costo dell’energia, luce, gas, benzina, che a quei tempi salivano quotidianamente e a livelli a volte impressionanti.
Oggi quel meccanismo non c’è più e, dopo parecchio tempo, è stato sostituito da un meccanismo europeo di adeguamento dei salari, l’IPCA, che monitora l’andamento dei prezzi depurati dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati.Vale a dire che le nostre buste paga vengono aggiornate, solo in sede di rinnovo contrattuale, senza tenere conto degli aumenti che ci sono stati nel periodo trascorso tra un contratto e l’altro di luce, gas e benzina, i beni che più di ogni altro incidono sulla spesa familiare.
Per di più il recupero di quanto stabilito dall’indice IPCA è andato a sostituire l’aumento contrattuale che non potrà in alcun caso superare la percentuale stabilita dall’indice IPCA. In soldoni i contratti servono solo a modificare, spesso in peggio, la parte normativa e non a garantire che con la contrattazione si possa spostare un po’ la bilancia a favore dei lavoratori invece che alle imprese o alle amministrazioni.
L’aumento delle bollette annunciato dal governo Draghi come se fosse un atto neutro, produrrà invece un aggravio non recuperabile e che inciderà fortemente sulla qualità della vita delle famiglie.
Negli anni in cui la spesa energetica era molto forte, crebbe in ogni parte del Paese, spesso su iniziativa del movimento operaio e dei comitati dei quartieri, la battaglia nei confronti delle aziende erogatrici di servizi perché si introducesse una fascia sociale calmierata per una quota di bolletta corrispondente al consumo medio delle famiglie operaie, e questo consentì di garantire un minimo di tutela ai redditi più bassi. Insieme a questa richiesta nacquero, specialmente nei popolosi quartieri delle periferie delle grandi città, i comitati per l’autoriduzione delle bollette, che videro una grande adesione e partecipazione.
Queste forme di lotta furono possibili, ed in gran parte ebbero successo, perché le aziende erogatrici dei servizi pubblici erano aziende di proprietà delle amministrazioni locali, che avevano potere di determinare le politiche adottate dalle aziende stesse. La liberalizzazione del mercato energetico, con il proliferare di aziende private in competizione tra loro per accaparrarsi fette di mercato, rende oggi molto difficile pretendere da queste aziende, in tutto e per tutto rispondenti agli interessi dei propri azionisti e senza alcun dovere sociale nei confronti dei loro utenti, provvedimenti di tutela analoghi a quelli che si ottennero con la mobilitazione nei confronti di comuni e regioni negli anni ‘70 e ‘80 del 900.
Il problema ha quindi molti padri: la situazione internazionale, i diktat dell’Unione Europea in materia di prezzi e salari, la privatizzazione delle aziende pubbliche, la devastazione ambientale, le logiche di mercato. Ne deriva un quadro che va rovesciato, restituendo spazio alle esigenze dei lavoratori e delle famiglie e non a quelle del capitale e dei suoi epigoni.
Aprire una vertenza generale sulla questione dei prezzi e del carovita, così come aprire una vertenza nei contratti per aumenti salariali e delle pensioni generalizzati e cospicui è oggi indispensabile e urgente.
Lo sciopero generale dell’11 ottobre è una grande occasione per avviare questa battaglia che è sociale, sindacale, politica e soprattutto assolutamente necessaria.
Unione Sindacale di Base